Ad aprire, Renata Pelosini, meteorologa e responsabile dell’area operativa di Agenzia di ItaliaMeteo, si è concentrata sul ruolo della meteorologia nazionale per la gestione del rischio. «La previsione degli eventi estremi non si può concentrare solo sull’evento meteorologico e basta, sugli effetti e sull’impatto al suolo del fenomeno. Il rischio è dato infatti dalla combinazione tra l’evento fisico scatenante con l’esposizione di persone, mezzi e servizi ambientali agli effetti di questo. E poi con la vulnerabilità delle infrastrutture e del territorio, dal punto di vista ambientale, socio economico. A incidere sulla capacità di proteggersi e adattarsi è anche il rapporto di fiducia della popolazione, talvolta incrinato, nei confronti della gestione. Pesa è anche la situazione socio-economica del territorio in cui avviene l’evento: le disuguaglianze e le condizioni di povertà aggravano l’impatto e, in generale, rendono difficile a monte aumentare la resilienza delle comunità attraverso l’informazione e l’educazione».
Nel suo intervento, Pelosini si è poi concentrata sulla definizione degli eventi meteorologici estremi, quelli che superano, per intensità e probabilità di impatto atteso, gli eventi considerati ordinari. Sono eventi che spesso hanno una rapida evoluzione con valori estremi e una forte localizzazione, magari combinati a una limitata prevedibilità. E che rendono difficile la pianificazione delle contromisure, anche per una sostanziale assenza di gradualità delle allerte. «L’impegno dell’Agenzia ItalaMeteo è quello di garantire una gestione ottimale e integrata dei sistemi osservativi e promuovere una maggiore consapevolezza e accoglienza da parte della popolazione, rispetto al tema dell’incertezza e della complessità nelle previsioni meteorologiche. Un fattore che si tende ancora a rifiutare oggi, quando si cercano invece risposte definitive e veloci».
«Le allerte meteo-idro di protezione civile non sono semplici previsioni meteo. Sono un modo per prepararsi a quello che potrebbe succedere. Spesso su questo c’è molta confusione» ha spiegato Ilaria Salvi della Protezione civile. «Coinvolgono un sistema polifonico composto da soggetti diversi, istituzioni pubbliche ma anche la società civile e privati gestori di servizi essenziali. Il Sistema di allertamento nazionale è nato nel 2004 e si è sviluppato nel tempo in una rete coordinata da un centro funzionale centrale a Roma e da 21 centri decentrati, tra cui uno per Trento e uno per Bolzano. Il territorio nazionale è suddiviso in 170 zone di allerta: aree tra loro omogenee rispetto al tipo di fenomeni e di effetti al suolo che possono verificarsi. Nelle allerte meteo si cerca di privilegiare più l’aspetto dell’impatto, che quello della previsione meteorologica. La situazione viene comunicata quotidianamente, anche quando non vi sono allerte, attraverso un sistema articolato e multi livello che è trasparente, coerente e riconoscibile. L’allerta salva, in virtù della reazione che riesce innescare. Ma c’è un problema di comprensione reciproca. Oltre all’introduzione di un sistema di colori condiviso per le allerte ormai consolidato, è necessario ora trovare un vocabolario condiviso tra previsori, amministratori pubblici e giornalisti». Il focus di Salvi si è spostato poi sul processo mediatico e sui social alle allerte, considerate a volte troppo blande o d’altra parte troppo insistenti.
Sulla percezione delle allerte meteo è intervenuta Valentina Grasso del CNR - Consorzio LaMMA:«Le allerte sono diventate con la spinta dei social media da tecnicismi a termini appartenenti al linguaggio quotidiano. Lo dimostrano i trend di ricerca, che attestano l’uso sempre più frequente anche da parte dei media. A questo si aggiunge una scarsa consapevolezza da parte della cittadinanza su chi in questo ambito detenga il ruolo di informazione ufficiale». Un problema emergente è anche quello legato proprio alla classificazione per colori che dovrebbe facilitare la comprensione, ma che talvolta genera sottovalutazione: La semplificazione attraverso gli schemi può accentuare nei non addetti ai lavori l’idea che il rischio sia controllabile o addirittura controllato. Ma trovare un’alternativa di comunicazione immediata per eventi di diversa prevedibilità è molto difficile. Nel tentativo di essere comprensibili siamo indotti a pensare che la scienza preveda tutto, sempre e in modo preciso, dando chiaramente indicazioni alle amministrazioni che devono gestire le contromisure. Si sovrastima la capacità di previsione e, anche attraverso l’accessibilità delle previsioni meteo sui nostri cellulari ci dà un’illusione di certezza. Poi entrano in campo anche i bias cognitivi che spingono le nostre convinzioni a riaffermarsi attraverso una selezione viziata dei contenuti, magari quelli meno accurati, ma che confermano i nostri punti di vista. Un aspetto, che riguarda anche la risposta al rischio percepito, molto variabile e personale, e la disponibilità a prendere decisioni sul futuro. Per arginare questa tendenza a sottovalutare o a criticare i falsi allarmi, insita nei processi cognitivi, è necessario lavorare sulla fiducia nelle istituzioni, nel sistema di informazione».